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Quirinale. Ecco chi ha permesso la sconfitta della banda di Repubblica e la tenuta del paese

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È finita bene. Ma è stato fortissimo il rischio di uno scontro senza confini teso a escludere parte decisiva della società italiana dalla scena pubblica. Solo l’avidità di Beppe Grillo ha impedito un’elezione di Romano Prodi come punta di lancia di tale operazione. Valutando i pericoli corsi, anche chi è eternamente grato a Giorgio Napolitano perché con evidente sacrificio personale ha tenuto aperta la via della ragionevolezza, non può non sottolinearne gli errori: affidare a un governo non politico l’Italia per un anno e vari mesi (vera causa del boom grillino), avere scelto un tecnico come Mario Monti insieme astratto e arrogante, non avere gestito la coincidenza di elezioni politiche e scelta per il Colle, non avere messo subito lo sperduto Pier Luigi Bersani con le spalle al muro.

Certo, poi la mossa di rilanciare la riforma della Costituzione come terreno per la prossima fase ha compensato buona parte di questi errori. Ma ci si è mossi sull’orlo del baratro. Altrettante colpe ha Silvio Berlusconi, incapace di cogliere come stesse arrivando il colpo del 2011, stordito per mesi dopo il varo del governo Monti, senza strategia istituzionale per utilizzare in qualche modo l’anno dell’esecutivo tecnico. Certo, poi, va dato atto al leader del centrodestra della fibra da combattente eccezionale nel difendere lo spazio politico dei moderati e nel collegare alla fermezza delle posizioni la flessibilità delle proposte per la partita fondamentale su governo e scelta del capo dello Stato.

Se i vincitori non mancano di pecche, mirabile invece è l’abilità dei registi della radicalizzazione: la banda di Repubblica. Un candidato principale (Romano Prodi), un obiettivo ancora più audace (Stefano Rodotà) se avesse prevalso la pressione grillina. Due candidati di riserva, qualora la linea principale non fosse passata: Giuliano Amato e un Sabino Cassese, indicato dall’astuto Eugenio Scalfari per non restare fuori dai giochi. Si era poi demonizzato Massimo D’Alema, il diavolo che indicava la necessità di dialogo tra le forze politiche, utilizzato un furbastro opportunista come Matteo Renzi, dominato il povero Bersani (perso “papà” Max, a Pier Luigi era restato solo il vecchio amico elettrico ing. Carlo), usati i mazzieri (vedi caso Franco Marini) quando il politico di Bettola subiva gli antichi istinti di responsabilità nazionale non del tutto estirpati dal dna togliattiano. Insomma Ezio Mauro aveva preparato la manovra perfetta: e in questo senso tanto più significativa è la sconfitta, così violenta da costringere De Benedetti a pregare Scalfari di ricostruire i rapporti con Napolitano.

Per coloro che sono infettati dalla convinzione che tutto ciò che è reale è razionale, viene naturale cercare sotto lo scontro appena vissuto pure qualche causa più profonda. Personalmente ritengo che nella partita sul Quirinale, in uno Stato così sbalestrato come il nostro, si decidano alcuni equilibri anche più importanti di quelli di governo: perché riguardano una fase lunga e non i bienni di vita che hanno più o meno caratterizzato gli esecutivi della Seconda Repubblica. In questa ottica la banda di Repubblica ha rappresentato tutti coloro che sono disponibili a concedere “via Colle” un diritto di ampia esterodeterminazione della governance nazionale: accoppiando a tal fine i due re dell’affare e dell’intrigo De Benedetti e Prodi, tirandosi dietro i carrieristi a ogni costo (ieri Walter Veltroni oggi Renzi), utilizzando avventurieri tipo Grillo e Gianroberto Casaleggio (grazie anche alle tempestive dichiarazioni di noti ambasciatori).

Modificare la Costituzione o sarà la rovina
Tutto ciò non sorprende, semmai stupisce la solidità della resistenza. Su che cosa ha poggiato? A forza di sottovalutare Berlusconi non si è colto quanto rappresenti (purtroppo senza riuscire a elaborare fino in fondo questo ruolo) le energie che vogliono ancora uno Stato italiano. E c’è anche una matrice strutturale di questo posizionamento: senza Italia non esisterebbe più Mediaset. Un altro protagonista di questa tenuta nazionale è senza dubbio Raffaele Bonanni, l’unico uomo pubblico italiano che oggi si prenda rischi non necessari per esempio ponendo la questione della riforma dello Stato. E per questo sforzo avrebbe meritato che il suo maestro Franco Marini arrivasse sul Colle.

È bene infine riflettere sulle basi che hanno sorretto la tenuta di postcomunisti come Napolitano, D’Alema e Luciano Violante. In questo senso mi pare di poter dire che una parte di quei settori dello Stato che nel 1992 pensavano di arrivare, anche con concessioni sul terreno delle influenze straniere, a guidare un cambiamento nella conservazione, si siano resi conto che senza modificare la Costituzione si vada solo verso la rovina. Probabilmente è stata decisiva anche la condotta di una personalità particolarmente rilevante come Mario Draghi che, proprio per la fiducia che gode a Washington, riesce a spiegare in certi ambienti che la destrutturazione finale del nostro Stato non fermerebbe l’egemonia tedesca, la renderebbe solo più devastante.

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